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Ad Auschwitz presero Wanda e la torturarono e l’appesero a un gancio e la lasciarono lì, a morire soffocata. Quando lo seppi pensai molto a lei, ma la ricordavo soprattutto com’era quella sera a Varsavia. Quella sera predisse la propria morte, la mia e quella dei miei bambini. Poi si addormentò sul tavolo, con la testa sulle braccia. Non volevo disturbarla e pensai a quello che aveva detto dei bambini - e mi sentivo tormentata e terrorizzata come non mi era mai accaduto prima. Andai nella camera dove dormivano. Ero talmente sopraffatta dalle parole di Wanda che feci una cosa che sapevo non avrei dovuto fare neanche mentre la stavo facendo - svegliai Jan ed Eva e li presi in braccio stringendoli al seno. Oltre la finestra faceva freddo e buio, non c’erano luci a Varsavia. Ricordo che la aprii per lasciar entrare il ghiaccio e il vento. Non so dirti quanto poco sia mancato che in quel momento mi buttassi nell’oscurità con i miei bambini - né quante volte, in seguito, mi sia maledetta per non averlo fatto.

La carrozza del treno che portava ad Auschwitz me, i miei bambini e Wanda era decisamente insolita. Non era né un carro merci né il carro bestiame che i tedeschi adoperavano normalmente per i loro trasporti. Per quanto possa stupire, era una vecchia ma ancora funzionante carrozza letti con tappeti sui corridoi, toilette e a ogni finestrino targhette metalliche a losanga che in polacco, francese, russo e tedesco, invitavano i passeggeri a non sporgersi. Jan ed Eva erano i soli bambini dello scompartimento.

C’erano particolari del viaggio che ricordo con estrema chiarezza. La puzza, la mancanza d’aria, il continuo cambiamento di posizioni - in piedi, seduti, in piedi di nuovo. Ricordo il panorama oltre la fessura. I libri che Jan cercava di leggere sul mio grembo sotto quella luce fioca. I due tesori di Eva: il flauto nel suo astuccio di pelle e l’orsacchiotto con un solo occhio e un solo orecchio che aveva da quando era in culla.

Non conoscevo allora il suo nome e non lo rividi mai più. Trentacinque, quaranta anni, un’estrema somiglianza con un ufficiale Junker, amico di mio padre. «Lo so che sei una polack, ma sei anche un’altra di questi luridi comunisti?». Io, con un braccio stretto intorno alle spalle di Eva e l’altro alla vita di Jan, iniziai a gridare: «Ich bin polnisch! Io non sono ebrea! E i miei bambini - non sono ebrei neanche loro! Sono di razza pura. Parlano tedesco».

Lui arcuò le sopracciglia e mi guardò. Era talmente vicino, adesso, da farmi sentire perfettamente il suo fiato intriso d’alcol. Capii di aver detto qualcosa di sbagliato, forse di irrimediabilmente sbagliato. Distolsi per un attimo il viso, gettando lo sguardo su una vicina fila di prigionieri e vidi Zaorski, l’insegnante di flauto di Eva, nel preciso cristallizzato istante della sua condanna - mandato a sinistra, a Birkenau.

«Puoi tenerti uno dei tuoi bambini.»
«Bitte?»
«Puoi tenerti uno dei tuoi bambini. L’altro dovrà morire. Quale terrai?»
«Vuol dire che devo scegliere?»
«Sei una polack, non una yid. E questo ti dà un privilegio - una possibilità di scelta.»
«Non posso scegliere! Non posso scegliere!»
«Zitta! E sbrigati a scegliere. Scegli, perdio, o li manderò tutti e due. Svelta!»
Non potevo crederci. Non potevo credere di essermi inginocchiata su quel duro, ruvido cemento, tenendo stretti a me i miei bambini in un abbraccio così soffocante da sentire la loro carne fusa nella mia.
«Non mi faccia scegliere… Non posso...»
«Allora mandali là tutti e due!» .
Mamma! fu questo il grido sottile ma acutissimo che udii emettere da Eva nell’attimo stesso in cui la spingevano lontana da me e mi rialzavo in piedi.
«Si prenda la piccola! Si prenda la mia bambina!»
L’aiutante di quell’uomo - con una premurosa delicatezza che sto cercando inutilmente di dimenticare - prese per mano Eva. Ho ancora oggi la confusa sensazione che avesse continuato a guardarsi indietro, implorante. Ma essendo ormai quasi del tutto accecata da grosse, salate e copiose lacrime, mi fu risparmiata qualunque espressione Eva potesse aver avuto, e di questo sarò sempre grata.
Aveva ancora il suo flauto. In tutti questi anni non ho più potuto sopportare questa parola. E neanche pronunciarla, in nessuna lingua.

Testo adattato da: William Styron, La scelta di Sophie.