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Ho provato a fingere che non fosse successo nulla illudendomi che fosse sufficiente girare pagina per riprendere una vita normale.
Oggi mi chiedo come ho fatto a raccontarmi una simile menzogna; avevo bisogno di quell’illusione e ho scelto di crederci.
Sentivo, nel profondo dell’anima, una ferita aperta che faceva male e stava ancora sanguinando. Era necessario aspettare per tornare a pensarci.

Se chiudo gli occhi e provo ad ascoltarmi, sento un vuoto incolmabile, alimentato da ricordi che affiorano a caso, nei modi più impensabili.
Un suono, una voce, un’immagine, possono far riemergere tutto.
Quando faccio bollire le patate, mi assale spesso l’irrefrenabile impulso di mangiarle senza farle raffreddare; le tiro fuori dalla pentola e mi scotto le dita.

Devo decidere cosa fare di questi ricordi.
Forse spiegarmi cos’è successo potrebbe essere d’aiuto, ma credo di non aver ancora capito abbastanza. So solo che ho un fortissimo desiderio di portare luce là dove c’è ombra.
Ogni volta che ci provo, il mio precario equilibrio trema e mi sento male.

Tutto iniziò appena sceso dal treno; la macchina infernale del campo di sterminio subito mi colpì.
Ordini incomprensibili, insulti, percosse. Sono stato spogliato, esaminato, umiliato.
Era tutto perfettamente studiato, perché chiunque capisse, immediatamente, che reagire non era possibile se si voleva sopravvivere.
Cercare aiuto era inutile. Dal primo istante era lotta, tremenda: tutti contro tutti, niente alleati. Una rivelazione così dura da far crollare, seduta stante, la capacità di resistere; disperata, mortale solitudine già all’arrivo.
Poi, un piccolo gesto semplice mi ha fatto capire cosa stava succedendo.
Mi hanno tatuato un numero sul braccio.
Hanno spazzato via il mio nome, la mia identità, la mia storia. Io non c’ero più; ero solo quel numero.
Il mostro aveva iniziato a portare la morte dentro di me.

A volte nella notte, di nascosto, ricucivo i brandelli della mia anima, sperando di ritrovare almeno un baluginio di luce. Mi riscaldavo in un luogo inaccessibile e provavo a tenerla in vita.

Si poteva morire in due modi: nel corpo ma, anche nell’anima.
Il campo era popolato da tantissime persone che si muovevano, si agitavano, cercando di sopravvivere in corpi ormai vuoti: nella disperata ricerca di sopravvivenza, sembravano aver perso coscienza di sé.

Io mi sono salvato, ma, e qui forse non mi crederete, mi sento in colpa.
Da allora, ogni giorno della mia vita, mi sono chiesto quante persone siano dovute morire perché mi salvassi.

Vorrei, avrei voluto, poter dividere il male dal bene, ma la rete dei rapporti umani all’interno del lager non era così semplice. Sicuramente non riducibile a vittime e carnefici. Ho capito, allora come oggi, che siamo tutti nel mezzo, in una zona grigia in cui il bene e il male sono confusi, in cui luce e ombra si compenetrano.
Il campo ci consumava in due o tre mesi. Morire di fame era l’inevitabile conseguenza, a meno di riuscire a ottenere qualcosa in più da mangiare, che voleva dire ottenere un privilegio. Per salvarsi, l’unico modo era sommergere le vite degli altri, spingendole verso il basso, e galleggiare su un mare di morte.

Il sistema era perfettamente strutturato quindi, in realtà, non è stata colpa mia. Ma io, che per sopravvivere volevo guardare la luce dentro di me, devo fare i conti con il male che invece ho trovato.
Seppur innocente, mi trascino nel vuoto e mi divora la colpa.

Ricordo una notte di vento che trascorsi sveglio.
Sentivo i fischi della bufera e la baracca in cui ero prigioniero, scricchiolare.
Sembrava stesse parlando. Stremato, sentii come un pianto; chiedeva perdono. Sì, la baracca chiedeva perdono a ognuno di noi, perché eravamo ostaggi nel suo ventre. Ma anche lei non aveva colpa.
Allora le sussurrai, le dissi che volevo vivere e pure il mio nome, perché non si sbagliasse.
Quella notte mi aggrappai alla speranza.

Dopo la liberazione, sono stato perseguitato dallo stesso sogno per molte notti.
Tornavo nella mia città, uguale a come l’avevo lasciata, e ritrovavo la mia famiglia come se nulla fosse accaduto. Li abbracciavo e mi immergevo nel calore rassicurante dei miei affetti e delle mie cose.
Poi iniziavo a raccontare la storia della mia deportazione e nessuno mi credeva.
Mi svegliavo urlando tutto il dolore che nessuno ascoltava.
Ho terrore che questo sogno diventi realtà e desidero, con tutto il cuore, trovare le forze e il modo per raccontare.

Questa sera allora, torno in quella zona grigia, in quell’ombra che ormai mi è familiare e guardo dritto negli occhi il mostro che vi alberga. Lo affronto, perché tutti sappiate. E ricordiate.
La società consuma ancora ogni giorno i suoi sacrifici e la storia si ripete intorno a noi. Fermatela. Raccontatelo. Lo chiedo a voi.

Claudio Tosi