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Sotto la sorveglianza di un sergente e di sei sentinelle, partimmo su un autocarro per Würzburg, dove avremmo dovuto costruire un bagno termale per le SS all’interno dell’ospedale gestito da suore. Noi venticinque detenuti fummo sistemati nel convento annesso all’ospedale e ricevevamo i pasti dalle suore stesse.

Oltre a tenere in ordine il nostro dormitorio, dovevo fare da inserviente nel refettorio, aiutando nei lavori più pesanti le suore che già cucinavano per noi: erano molto gentili nei nostri confronti, nonostante le SS le avessero messe in guardia presentandoci come sovversivi e criminali.

Spiegai loro i vari tipi di triangoli dei detenuti del campo, incluso il fatto che il mio rosa era il contrassegno per gli omosessuali. Raccontai alle suore le brutalità delle SS nel campo di concentramento, le grandi sofferenze degli ebrei, dei prigionieri politici, dei Testimoni di Geova e degli zingari. Le sorelle rimasero allibite dai miei racconti e all’inizio non volevano credere che le SS fossero state così crudeli e disumane con noi: non avevano idea che il regime si stava liberando dei suoi oppositori e dei cittadini indesiderati torturandoli e sopprimendoli.

Il primo giorno di lavoro, quando a mezzogiorno tornammo al convento per il pranzo, le suore ci separarono dai nostri guardiani e ci condussero in una stanza attigua al dormitorio per darci da mangiare. Quando entrammo nella stanza, completamente ignari, restammo tutti a bocca aperta: su una lunga tavola ricoperta da una tovaglia bianca, al posto delle nostre scodelle di latta c’erano piatti di porcellana bianchi col bordo dorato e disegni floreali e posate lucenti come l’argento. Sulla tavola c’erano anche dei fiori nei vasi di cristallo e le numerose candele creavano nella stanza un’atmosfera estremamente festosa, come a un pranzo di nozze. Ci mettemmo a tavola e mangiammo la minestra, mentre la maggior parte di noi piangeva per la commozione: eravamo tutti presi dalla nostalgia di casa nostra, dal piacere di poter stare a tavola in modo civile e decoroso. Dopo anni di vita subumana, per la prima volta sedevamo a una tavola apparecchiata a festa.

Alla minestra seguì un polpettone di carne macinata con patate e salsa, e vino di mele annacquato. Quel pranzo ci fece un immenso piacere ed eravamo felici come bambini: nessuno pronunciò parole volgari, come accadeva invece durante le nostre pause per i pasti, e tutti ci sforzavamo di mangiare nel modo più educato possibile, rivolgendo sguardi e parole di gratitudine alle suore che servivano.

Eravamo ancora nel bel mezzo del pranzo quando l’ufficiale delle SS entrò nella nostra sala da pranzo, stupito e irritato per il trattamento che ci era stato riservato. Furente, intimò alle suore di non farlo mai più: noi detenuti dovevamo mangiare nelle nostre ciotole di latta e non sederci a una tavola imbandita, dopo tutto eravamo dei criminali e non dei frati in visita. Le suore rimasero turbate dal violento rimprovero e dal divieto di apparecchiare bene la tavola, ma per evitarci rappresaglie si adeguarono agli ordini. Tornammo quindi a consumare i nostri pasti nelle ciotole di latta, ma perlomeno potevamo sederci a tavola. Non dimenticammo mai il banchetto delle suore, e non fummo i soli a continuare a parlarne per mesi: infatti la notizia si diffuse anche in altri campi.