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La struttura si sosteneva da sola con gli scarti della lavorazione. Così mi disse, con un vago entusiasmo, e sicuro che lo potessi capire.
Mi ritrovai nel campo di concentramento di Auschwitz in poche ore dalla cattura, o forse giorni. Non ho ricordi veri di quell’evento. Solo alcune immagini e sensazioni, tanto fu il panico che mi rese immobile nella mente più che nel corpo.
Fui imprenditore, e cercai sino all’ultimo di mantenere il mio lavoro, la mia dignità e quella di coloro di cui ero responsabile. Quando espropriarono, mi trovai chiuso in casa mia, in un limbo sospeso tra la negazione di aver perso tutto e l’attesa che portassero via anche noi. Non fui capace di progettare una fuga o una latitanza.
Il contabile del campo conosceva per fama me e la mia ditta. Volle incontrarmi e per qualche giorno mi tenne nelle sue grazie, poi si dimenticò di me, preso dalla gestione della sua macchina.
La macchina, diceva.
La macchina si ripaga delle spese vive da sola. Guardavamo il campo dalla finestra e mi indicava le varie zone.
É finalizzata ad altro, mi disse tossendo, non per imbarazzo ma per sottolineare il prestigio della segretezza, ma al netto degli scopi scientifici e politici per cui è finanziata, chiude in pareggio con i proventi dei soli scarti della lavorazione.
Io annuivo. Avevo imparato subito cosa fosse la brutalità, la ferocia senza senso e logica, ed è la mancanza di ciò che distrugge la mente minuto dopo minuto, e corrode ogni ultima dignità nell’ossido del terrore.
Uno sparato in testa ogni dieci, in fila a caso. Senza una spiegazione. Senza neanche una diretta e catartica manifestazione di odio, puro e fine a se stesso. Sparavano alla testa del decimo come fosse un controllo a campione della qualità del prodotto, con lo stesso distacco concentrato.
Per poter reggere quelle confessioni, che al contabile sembravano invece condivisioni fra stimati colleghi, per sopportare quello che diceva e scoprivo e non avrei mai voluto sapere, avevo imparato a entrare in un angolo della mia esperienza e della mia mente in cui riuscivo a ridurre tutto a oggetto, a numero, a logica di ottimizzazione e bilancio. Solo per non collassare. Solo perché il terrore e l’umiliazione mi portavano addirittura a sperare che il contabile del campo mi tenesse ancora in considerazione, nella baracca più calda, con un pasto vero al giorno, con una coperta in più da poter vestire addosso all’aperto, come aveva fatto finora.
In quell’astrazione della mia mente, che la minò per sempre, ascoltavo lui parlare degli scarti delle lavorazioni. Con i capelli facciamo feltro, bobine di feltro per la produzione di abbigliamento militare, mi diceva. Bene, rispondevo, e contavo nella mia testa trasformando il tutto in rotoli di carta, ottenuta da stracci recuperati. Contavo e tornava, tornava tutta l’economia e il profitto a cui accennava. Vede Jacob, con i denti d’oro recuperati dai cadaveri, beh, non le devo spiegare nulla… ammiccava. Io visualizzavo piccole gemme azzurre fatte saltare da rocce grigie, tonde e immobili da eoni, e riuscivo davvero a quantificare una stima del valore quotidiano di quelle operazioni.
Per non parlare degli effetti personali che vengono ritirati appena giungono i treni. Ma quelli, come può immaginare, Jacob, a parte qualche rarità, vengono soprattutto distribuiti fra il personale del campo o inviati ad altri reparti o al macero. Con profitto comunque! disse alzando il ditino.
Io immaginavo cantine svuotate da vecchi attrezzi, ricordi e spazzatura, che venivano riciclati o rivenduti, nella speranza apparisse ogni tanto un cimelio di valore. A costo zero, così, funzionava. Era comunque un guadagno sensibile.
Quando il contabile mi lasciava andare, io speravo di poter lavorare, per quanto fosse inutile e stremante, solo per ritardare quelle notti in cui, sotto il privilegio della mia coperta, i capelli e i denti, magari di mia moglie o mia figlia, gli esperimenti scientifici e politici, l’efficienza e l’utile giornaliero della macchina, si inchiodavano nella mia testa e nelle mie viscere fino a farmi digrignare i denti e guaire come il cane che nemmeno ero.

Giancarlo Mariottini
Marcello Mistrangelo

Lettura e interpretazione di Giancarlo Mariottini.

Testo di Marcello Mistrangelo.

Allestimento scenografico realizzato dagli studenti dell'Accademia Ligustica di Belle Arti: Gianmaria Mazzarello, Eleonora De Ferrari, Noemi Bertozzi, Mara Amapane, Sharon Luminoso, Leyla Biri, Denis Zavala.