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Abbiamo creduto che, dopo la liberazione di Parigi, gli allegati sarebbero avanzati travolgendo ogni ostacolo. Ma sta arrivando un altro invero, le probabilità di sopravvivere si assottigliano. Siamo già molto magre, anche se non ancora allo stadio di “musulmane”. Non facciamo lavori manuali, il migliaio di calorie che ingurgitiamo ogni giorno ci consente di tirare avanti. La maggior parte di noi non si trova del resto mal ridotta. Tutte hanno un’idea un po’ antiquata del loro aspetto. La grande Irene, che è diventata gonfia, ammira la propria asciuttezza; Annie crede di essere armoniosamente tonda, mentre è di una magrezza preoccupante; Jenny, quasi scarnificata, si trova molto attraente; Clara, grazie al successo del grasso sedere, è convinta di essere bellissima.

Le SS sembrano sempre più nervose, distratte, incoerenti, più o meno crudeli inspiegabilmente.

C’è bisogno di spazio, si seleziona ininterrottamente, si aspettano altri treni. I Russi hanno conquistato Varsavia, l’hanno perduta, riconquistata e perduta ancora. Il campo è affollato di polacche ariane di tutte le età e di bambini. Accampate in mezzo ai bagagli, distese sulle coperte che hanno portato con sé, riscaldano minestre, allattano. Non si riesce nemmeno a passare in mezzo a quella ammasso di donne che piangono e si guardano intorno senza capire.

Il fumo dei crematori più denso e più greve del solito, fa capire che sono intasati; quelle donne sono lì ad aspettare il loro turno insieme ai bambini. In tutte le baracche è diffusa la paura: le polacche sono ariane, si teme che tocchi alle ebree far loro posto. E’ l’argomento del giorno, se ne parla dappertutto. Il tempo è ancora bello, tutte il lager formicola di bambini che giocano e si rincorrono sotto gli occhi irrequieti delle madri; sembra di essere in un campeggio. Quando usciamo per il concerto della domenica, le polacche ci guardano con stupore. Suoniamo per loro, mentre Sonia, che detesta tutti i polacchi, ha l’aria disgustata. Le Ss non ci ascoltano, vanno e vengono, preoccupate, furibonde per tutta quella folla che sconvolge il loro campo, sempre così perfettamente ordinato. Kramer non può tollerare quella confusione.

Frau Maria Mandel, impeccabile nella sua uniforme, viene verso di noi, si fa largo in mezzo ai corpi, è irritata e nauseata. Le si fa incontro un bambino biondo e riccioluto di due o tre anni, si afferra ai suoi stivali, la tira per la gonna. Ci aspettiamo di vedere la Mandel liberarsi del bambino con una pedata; invece si china, lo prende in braccio, e lo bacia. La scena è così strana che per un attimo l’orchestra smette di suonare. La Mandel si allontana con il bambino in braccio. Le donne la guardano passare; una polacca la insegue piangendo, ma una folla di corpi le separa. La Mandel sparisce in distanza.

L’andirivieni dei camion è durato tutta la notte. I colpi di fischietto non ci hanno lasciato dormire. Al mattino di fuori, non c’è più una sola donna, un solo bambino, un solo cartoccio. L’ordine è tornato perfetto.

Siamo ancora consegnate, il Blocksperre si protrarrà per tutto il giorno: in un giorno, i crematori possono bruciare ventiquattromila cadaveri.

Le ragazze del Canada sembrano impietrite davanti all’incredibile mucchio di abiti da bambino che devono smistare, impacchettare e spedire a Berlino.

Durante le prove, arriva la Mandel con il bambino in braccio. Lo ha fatto vestire come il figlio di un principe, tutto in blu. In mano, il bimbo ha una tavoletta di cioccolata che protende verso la Mandel. Lei si schermisce, lui insiste ridendo, lei fa finta di mangiare, tutti e due si divertono.

Seduta con il bambino sulle ginocchia, si compiace del nostro interessamento, è fiera di quel bimbo e continua a ripetere: “è bello, vero?” come una mamma inorgoglita. Il bimbo si mette in piedi sulle gambe della Mandel, le sgualcisce gli abiti, le sporca la gonna con le scarpe, la bacia con la bocca sporca di cioccolata. La Mandel ride. Se ne va tenendo il bimbo per mano, non più con la solita falcata, ma lentamente, adattando il passo al trotterellare del bambino.

Per una settimana la si vede girare per il campo con quel bambino attaccato alle sottane. Il bambino indossa un completino nuovo tutti i giorni. Sembra che le ragazze del Canada stiano impazzendo: la signora vuole esclusivamente vestitini blu. Piove rabbiosamente.

La maggior parte delle ragazze è già andata a dormire, quando ci annunciano l’arrivo della Mandel, che entra avviluppata in un grande mantello nero. Pallida, gli occhi cerchiati, chiede il duetto della Butterfly. Alla fine del pezzo, si alza e se ne va senza dire una parola.

L’indomani, Ingrid, la sorella di Marta, ci dice che la Mandel ha accompagnato il bambino alla camera a gas. Le ragazze piangono. Piangono per il bimbo e, senza saperlo, anche per quella donna, della quale le ungheresi dicono che “ha marciato sul suo cuore”.

Fania Fénelon


Laura Ghio
Laura Ghio

Letto e interpretato da Laura Ghio.


Fania Fènelon, Ad Auschwitz c'era un'orchestra, Firenze, Vallecchi, 2008
Fania Fènelon, Ad Auschwitz c’era un’orchestra, Firenze, Vallecchi, 2008