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Simone Repetto legge “La rivolta del 16 Maggio 1944” di Matteo Monforte

Era Maggio, quando quei figli di puttana sono arrivati, sperando di coglierci impreparati. Il 16 Maggio, se non sbaglio. Sì, era il 16 di maggio del 1944. E chi se lo scorda. Che cazzo di casino che abbiamo fatto. Che bordello. Ci eravamo riuniti qualche sera prima, mio fratello Istvan aveva parlato a tutti e così eravamo riusciti a organizzarci per tempo. Sapevamo dove recuperare le armi. Sapevamo come usarle. È una vita che tutti ci abbaiano in faccia che siamo solo una razza di delinquenti. Dei poco di buono, dei violenti, dei ladri. Degli assassini. La feccia del mondo. Dei bastardi buoni solo a non rispettare la legge. E allora, ci siamo detti, se tutti pensano questo di noi, facciamoglielo vedere davvero, come si comportano i delinquenti.
Essere uno zingaro non è facile, non lo è mai stato. Nemmeno ad Auschwitz, ci credete?
Cazzo, nemmeno in un merdoso campo di concentramento ci trattavano come gli altri. Eravamo gli appestati! Io non so se fosse vero, ma dicevano che gli altri prigionieri non ci volessero con loro. Roba da matti. Avevano paura. Capite? Paura di noi zingari ad Auschwitz. Non so se fosse la verità o una balla dei nazisti, fatto sta che eravamo isolati, tutti stipati in una zona che quelli delle SS avevano costruito apposta per noi. Lo avevano chiamato Zigeunerlager. Ci avevano messo lì, raggruppati per clan. E poi ci avevano dimenticati. Giuro, proprio così: dimenticati. Abbandonati a noi stessi per mesi e mesi. Quelli delle SS nemmeno li vedevamo, alle volte. Non eravamo come gli altri prigionieri, no. Noi non partecipavamo ai gruppi di lavoro, non facevamo l’appello del mattino. Stavamo lì. A marcire. Più tardi scoprimmo che i nazisti avevano adottato questo sistema con noi, per non farci drizzare troppo le antenne. Per farci credere che quello fosse solo un posto dove ci avevano rinchiusi e non un campo di sterminio. Avevano paura. Paura di noi. Ma fatto sta che lì dentro ci stavamo morendo uguale, cazzo. Non avevamo bagni, non avevamo cibo. Le condizioni igieniche erano pessime. I topi erano grossi come gatti randagi ed erano migliaia. Correvano come matti in mezzo al nostro piscio e alla nostra merda. Tutto il santo giorno, con quel loro verso maledetto nelle orecchie. C’era da impazzire. Faceva freddo. Un freddo del diavolo.
Il primo della mia famiglia a morire è stato mio nipote Milos, il figlio di mia sorella Maruska. Aveva tre anni e mezzo e pesava dieci chili. Porca troia, era talmente magro che non riuscivo a guardarlo. Con una pancia così, come se avesse mangiato un pallone da calcio. Morì di notte, me ne accorsi dalle urla di mia sorella che non era riuscita a svegliarlo più. Lo abbiamo messo dove stavano tutti gli altri cadaveri. I tedeschi non venivano a portar via i morti, e allora stavano tutti impilati fuori, a decomporsi, coi topi che mangiavano i loro occhi e le loro viscere. La montagna di morti era altissima. Ci mettemmo anche Milos. Poi se ne andò mia cugina Anelka, credo di polmonite. Poi mio suocero, chi lo sa perché, non ce lo chiedevamo manco più. Li mettevamo nella pila con gli altri cadaveri e basta. Ogni tanto arrivava qualche soldato. Prendeva qualcuno di noi per portarlo a fare delle visite mediche, dicevano. Come fecero con Dan, e Zlatan e Stevo e Drina e Zemfira. Nessuno superava gli otto anni. Non li vedemmo mai più. Gli zingari sono stata la razza più colpita dagli esperimenti del dottor Mengele. Facevamo da cavie più ancora degli ebrei. Soprattutto i bambini. Sui ragazzini, quei figli di puttana, facevano i più atroci esperimenti genetici che mente umana possa concepire. Li svuotavano dal sangue mentre iniettavano quello di un altro. Roba da matti. Ad ogni modo, i tedeschi, quel Maggio, ci avevano informati che sarebbero venuti a prenderci per portarci finalmente tutti da un’altra parte. Avevano detto che ci trasferivano, ma noi sapevamo a quale destino andavamo in contro, in realtà. Sapevamo che ci avrebbero portati tutti a morire. E così, decidemmo di ribellarci. Ci riunimmo e mio fratello Istvan ci disse che avremmo venduto cara la pelle, che avremmo combattuto con onore, l’onore della nostra razza. Lo Zigeunerlager era pieno di pale, picozze, bastoni. Quelle sarebbero state le nostre armi. Eravamo tanti. Centinaia. Quando il 16 di Maggio quei figli di troia arrivarono, non sospettavano di nulla. Gli cogliemmo di sorpresa. Erano totalmente impreparati. Nessuno dei prigionieri si era mai ribellato, prima di allora. Nessuno, tranne gli zingari. Sbam! Li aggredimmo immediatamente. Botte da orbi. Uno di loro mi venne in contro e gli fracassai la testa con un colpo di vanga. Cadde urlando come un agnello sgozzato, quel pezzo di merda nazista. Quelli di loro col mitra spararono a qualcuno, ma poi erano talmente pochi che furono costretti alla ritirata. Scapparono come dei conigli impauriti. Avevamo vinto. Ci abbracciammo. Per la prima volta ad Auschwitz dei prigionieri avevano messo in fuga dei soldati delle SS. Ed eravamo stati noi. Gli zingari. Che colpo, ragazzi. Gliela avevamo fatta vedere noi. Li avevamo fatti scappare a suon di bastonate. Che vittoria… Il 2 di Agosto però tornarono a sorpresa. Erano molti di più. Ci portarono via tutti. Tutti. Quella notte 2897 zingari tra donne, uomini e bambini, trovarono la morte nel crematorio numero 5, il più vicino allo Zigeunerlager. Io no. Io e altri scampammo alla morte perché si dimenticarono di noi, credo. Soltanto ad Auschwitz, durante la seconda guerra mondiale, furono deportati oltre 23000 Zingari, considerati da Hitler razza inferiore e quindi da sterminare. Quasi nessuno è al corrente di questa enorme deportazione. Perché è così. Perché siamo scomodi ancora oggi. A nessuno fa troppo piacere parlare di noi. Averci troppo attorno. Siamo zingari. Pace all’anima loro. All’anima di tutti loro.

Matteo Monforte