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La storia di Dora Venezia, donna ebrea che ha dato la sua vita per la Memoria, inizia a Genova e a Genova ritorna, per ricordare che le persecuzioni e le deportazioni accadevano nei luoghi che ancora oggi quotidianamente percorriamo e viviamo.

Mentalmente il primo anno non ebbi grossi problemi, stavo bene, ero lucida. Dopo il primo anno da quando ero tornata iniziai però ad avere gli incubi. Di notte non riuscivo a dormire, mi tornavano in mente i miei genitori, i miei fratelli, le cose orribili che avevo visto. Tornata dal campo ritrovai mia sorella, la casa, un lavoro ma non riuscii a ritrovare me stessa.

Non sapevo se odiavo di più il nemico o l'amico, quell'amico che aveva fatto finta di non vedere e di non sentire, quell'amico che mi chiedeva come avevo potuto tornare viva mentre tutti gli altri erano morti. Nonostante tutto però io mi sentivo viva e questo poteva bastarmi, avevo solo il dovere di restare viva.
La sera dell'arresto, il 22 giugno 1944, entrarono in casa attraverso il poggiolo. Ci presero praticamente tutti: i miei genitori, mio fratello Alberto di ventitré anni, mia sorella Renata di sedici anni e me di diciotto anni; l’unica che si salvò fu Flora, la mia sorella maggiore che, per puro caso, quella sera non era con noi.

Partimmo per Auschwitz il 26 giugno. Ci caricarono su un carro bestiame insieme ad altre cinquanta persone; eravamo accatastati l'uno sull'altro e ci tennero chiusi fino alla fine dei viaggio. Solo ogni tanto aprivano per darci un pezzo di pane e per farsi consegnare tutte le cose preziose che potevamo avere con noi. Mia mamma, che si era portata degli ori in una borsetta, gettò tutto dal finestrino per evitare di dover consegnare le sue cose ai tedeschi.

Dopo otto giorni ci fecero scendere e poi ci divisero. Mi portarono in un salone dove mi spogliarono, mi tagliarono i capelli e mi misero sotto una doccia; mi tatuarono il numero di matricola sul braccio: A­8501, poi mi buttarono addosso un vestito nero lungo e largo che mi accompagnò per i successivi undici mesi.
A settembre l'aria cominciò a rinfrescarsi e piovve a dirotto. Di notte, quando c'era burrasca, il vento spandeva nel campo un odore particolare e le fiamme dei forni crematori si alzavano seguendo la direzione del vento. Ogni notte, con la scusa del gabinetto, uscivo a guardarle: per nessuna ragione al mondo volevo dimenticare quello spettacolo, qualora fossi tornata libera.

Un giorno ci portarono fino a una pianura dove scorreva un fiume, e ci dissero che, se voleva­mo, eravamo «libere» di fare il bagno. A un certo punto caddi in acqua, forse mi spinsero, sicuramente non mi buttai da sola perché non sapevo nuotare. Le SS mi ripescarono e mi misero ad asciugare al sole. Sotto la minaccia dei fucili mi costrinsero a stare in ginocchio con la faccia rivolta verso il sole, vietandomi di chiudere gli occhi. Non so quanto tempo mi fecero stare in quella posizione ma quando mi permisero di alzarmi non vedevo più nulla; tornai al campo sorretta da due compagne.

Mi venne così in mente la mia sorellina e pensai che da troppo tempo non sapevo più nulla di lei; giurai a me stessa che, se la mattina dopo mi fossi svegliata viva, sarei andata a cercarla. Sapevo che era in un blocco particolare; me lo aveva detto una compagna. Il giorno dopo, svegliandomi viva, approfittai del trambusto creato dalla partenza di molte di noi per un altro campo e andai a cercarla. La ritrovai ridotta ad uno scheletro, tutta pelle ed ossa: mi disse che per evitare le torture aveva accettato di donare il sangue. Le stavano, a poco a poco, prelevando tutto il sangue. Non aveva la forza di alzarsi. Si scusò dicendomi: “Perdonami se ti ho tradito. Credevo di aver salvato la vita e invece sto per morire”. Le sue compagne di blocco mi fecero capire che era meglio che me ne andassi, perché la mia presenza la faceva soffrire ancora di più. Così l’abbracciai e me ne andai. Fu l’ultima volta che la vidi.

Qualche tempo dopo ci caricarono su un treno diretto al campo di sterminio di Ravensbruck, in Germania, e da lì a Belsen. Era più grande e conteneva già altre centinaia di deportati. All’arrivo non ci tagliarono i capelli né badarono al numero che avevamo tatuato sul braccio; ci diedero una pezza bianca con su un altro numero e il triangolo. Poi ci sistemarono in baracche di legno con i letti a castello e ci assegnarono al lavoro in una fabbrica dove dovevamo fabbricare delle munizioni. Sopravvivere era molto difficile. Da mangiare ci davano un pezzo di pane che doveva durare tutta la settimana e della margarina in cubetti, tipo quella di burro che ora danno negli alberghi.

Nel febbraio del 1945 il fronte si stava avvicinando sempre di più e non fummo più portate a lavorare. Alla metà di marzo cominciarono a evacuare il campo; molti prigionieri furono trasferiti, altri rimasero li e furono poi liberati dagli americani; so che in quel periodo tanti morirono anche per un’epidemia di tifo. Il gruppo di cui facevo parte fu trasferito a Dachau; da lì cominciò la “marcia della morte” che durò fino al 25 aprile 1945.
Il mio gruppo comprendeva circa cento donne, soprattutto di nazionalità greca, ungherese e francese. Fummo costrette ad incamminarci senza alcuna meta con la fame che ci divorava, il vomito per la fame e le labbra spaccate per la sete. Mentre camminavamo, ogni tanto, raccoglievamo l’erba e ce la mangiavamo. Quando qualcuna non riusciva più ad andare avanti perché era sfinita o andava fuori la fila, le SS la abbattevano con un colpo di fucile o rivoltella. Dopo dieci giorni eravamo ormai rimaste una ventina. Le altre erano state uccise per strada. Con sorpresa ci accorgevamo che anche le SS piano piano sparivano. Scappavano di notte. Una mattina ne erano rimaste solo due: a un certo punto ci dissero di andare avanti verso una piccola città; poi uno dei due sparì e l’altro in tedesco ci disse “Aufwiedershen”, arrivederci! Eravamo libere! La libertà, Dio mio, ero libera!

Marcella Silvestri

Letto e interpretato da Marcella Silvestri.

Testo adattato da: Chiara Bricarelli (a cura di), Una gioventù offesa. Ebrei genovesi ricordano, Firenze, Giuntina, 1995 (intervista a Dora Venezia).

Allestimento scenografico realizzato dagli studenti dell'Accademia Ligustica di Belle Arti: Viviana Bartolini, Daniela Birlizzi, Arianna Ruocco.